2 Samuele 18:18

אֵֽין־לִ֣י בֵ֔ן בַּעֲב֖וּר הַזְכִּ֣יר שְׁמִ֑י

Di Elia Fiore (MA Oxon)

TRADUZIONI

Diodati: Io non ho figliuoli, per conservar la memoria del mio nome
Nuova Diodati: Io non ho un figlio che conservi il ricordo del mio nome
Riveduta: Io non ho un figliuolo che conservi il ricordo del mio nome
Nuova Riveduta: Io non ho un figlio che conservi il ricordo del mio nome
C.E.I.: Io non ho un figlio che conservi il ricordo del mio nome

 

COMMENTO

אֵֽין־לִ֣י

E’ interessante notare che, in ebraico biblico, non esiste il verbo “avere”.

Il Vocabolario Treccani definisce il significato base del verbo avere nel modo seguente:

“Esprime fondamentalmente l’idea del possesso, in senso proprio e fig., e tanto del possesso in atto quanto del possesso incipiente; significa quindi: a. Possedere, sia cose materiali: a. una casa, molte terre, parecchi soldi, una discreta biblioteca, un abito nuovo (anche assol.: chi più ha più dia; fig. e chi più ne ha più ne metta, a conclusione di un’enumerazione, con valore di «eccetera, e così via»); sia doti fisiche: a. una bella voce, una robusta costituzione, uno stomaco di ferro; sia qualità morali o intellettuali: a. molte virtù, un bell’ingegno; a. poco spirito; a. giudizio; a. poca memoria; sia altre cose astratte: abbiamo finalmente le prove della sua colpevolezza; a. una lunga esperienza…”

L’idea principale trasmessa da questo verbo sembra essere quella del “possesso”; idea spesso strettamente collegata implicitamente, anche se effettivamente non necessariamente implicita nel verbo italiano “avere”, al concetto di “proprietà”.

In ebraico biblico, invece del verbo “avere”, esiste una locuzione, un’espressione che viene tradotta in italiano con il verbo “avere”. Per dire, per esempio, “io ho un figlio” in ebraico biblico si dice “C’è per me un figlio”; mentre “Io non ho un figlio” è, di fatto, la traduzione italiana di “Non c’è per me un figlio”.

La locuzione ebraica non può essere considerata, strettamente parlando, una “frase idiomatica” proprio per il fatto che la frase ebraica è perfettamente comprensibile e traducibile anche letteralmente in italiano.

Un idiomatismo o, meno tecnicamente, un modo di dire può essere definito come:

Una locuzione di significato peculiare proprio di una specifica lingua, la cui traduzione letterale in altre lingue può non aver senso logico e che per questo richiede, per essere compresa, una traduzione logicamente estesa. In altre parole, è una frase che non può trarre il suo significato dalla combinazione lessicale delle parti del discorso, bensì dall’interpretazione che i parlanti sono abituati a trarne.

שְׁמִ֑י

A integrazione di quanto detto sopra, è anche degno di nota il fatto che, in ebraico biblico, non esistono di fatto neanche gli aggettivi possessivi.

La locuzione “il mio cavallo” viene espressa con l’ausilio di proponi personali complemento all’interno di ciò che viene definita “una catena costrutta”: “il cavallo di me”.

Viene quindi usato un rapporto “genitivo” indicato in italiano dal “complemento di specificazione”.

E’ interessante notare che, persino in italiano, il complemento di specificazione non viene usato per indicare solo o, addirittura, principalmente “possesso” o “proprietà”, ma ha anche funzione esplicativa o attributiva.

Di fatto il complemento di specificazione può anche “precisare un’azione generica”; oppure “indicare una provenienza, una parte di un oggetto, l’autore di qualcosa o una relazione”.

 

RIFLESSIONE

Appare evidente che la locuzione dell’ebraico biblico tradotta in italiano con il verbo “avere” esprime, o almeno enfatizza, un concetto semantico completamente diverso da quello spesso attribuito al verbo italiano “avere”.

Innanzitutto la locuzione ebraica sembra esprimere con più forza, da un punto di vista puramente linguistico, che ciò che noi traduciamo con il verbo “avere” in realtà non enfatizza tanto il “possesso”, spesso confuso con un diritto di proprietà, quanto semplicemente un “un’opportunità”:  qualcuno o qualcosa è stato messo a nostra disposizione.

Il fatto che ci sia qualcuno o qualcosa a nostra disposizione non implica necessariamente né automaticamente il godimento dei benefici a questi collegati; benefici che sono, sostanzialmente, il frutto di una “buona amministrazione” di ciò o di chi è stato messo a nostra disposizione.

La lingua stessa sembra quasi riflettere un principio espresso da tutta la Bibbia: l’essere umano non può e non deve concentrarsi tanto nel cercare di far valere un diritto, di fatto inesistente, di possesso né, tantomeno, di proprietà; può e deve piuttosto cercare di fare del proprio meglio per essere un buon amministratore di chi o di cosa “è stato messo a sua disposizione”.